Stampare con un torchio tipografico a mano è, ormai da decenni, quanto di più anacronistico si possa incontrare nel mondo della stampa. La tipografia stessa è diventata una tecnica di riproduzione del segno obsoleta da quando è stata esclusa dalla produzione, relegando quest’arte antica a un lusso. Ma allora che senso può avere nel nostro tempo praticare la tipografia e ancor più con il torchio a mano? Il torchio è una macchina semplice, l’azione esercitata dal braccio provoca l’unico movimento possibile: avvicinare due piani metallici e schiacciare quanto sta nel mezzo, semplicemente comprimere, nel mio caso imprimere. È uno strumento che sviluppa e moltiplica lo sforzo in un’unica direzione, senza discrimine, come fa un martello. Richiede una pratica severa. Stampare è fatica fisica e talvolta anche gli automatismi di lavoro ormai consolidati presentano inaspettati ostacoli, allora il torchio sembra rifiutare la stampa, o forse rifiuta il torcoliere impaziente, e la ghisa si oppone, l’inchiostro slitta e la pressione svanisce. Il torchio è esigente verso chi lo usa, la somma di piccole imprecisioni, valutazioni affrettate, movimenti scomposti, generano la sua ribellione e restituisce una stampa vaga, disomogenea, sbavata, sciatta. Frustrazione e dispiacere. Ma quando ogni passo viene eseguito con cura e l’allestimento è quello appropriato, quando l’inchiostro tira al punto giusto e la carta umida è pronta ad accogliere il morso del carattere, allora ogni movimento è una danza, l’azione della barra sotto lo sforzo trasmette alle mani la percezione del contatto e le quattro zampe artigliate afferrano il terreno, scaricano tutto il peso del metallo in cerca di stabilità. A questo punto il magico stupore che la stampa sa suscitare si ripete a ogni foglio. Sollevando la carta dal carattere si mostra l’impressione del segno, netta e incisa, è un lampo la sua forma nera ancora lucente, e il desiderio è quello di sfiorarla in punta di dita per valutarne al tatto la qualità. Soddisfazione e piacere.
Alessandro Zanella